La chimica

Il fattore che ha maggiormente condizionato lo sviluppo delle fotocamere è stato il progressivo miglioramento dei materiali sensibili. Emulsioni con una risolvenza sempre più alta hanno permesso di ridurre i formati delle lastre senza rinunciare alla qualità mentre la maggiore sensibilità alla luce ha consentito di utilizzare le macchine fotografiche prima a mano libera e poi di dotarle di otturatori sempre più veloci. Per questo la storia della chimica fotografica è parte integrante della storia della fotocamera. Neppure l'ottica, nonostante gli enormi progressi,ha influito così tanto sulla macchina fotografica quanto la chimica; basta pensare che gli schemi ottici fondamentali sono gli stessi che erano noti alla fine dell'800: se considerate il Planar, disegnato dalla Zeiss nel 1896 con uno schema di sei lenti, è rimasto fondamentalmente inalterato fino ad oggi.
Perchè questa differenza? Forse perchè quando nasce la chimica fotografica l'ottica è una scienza già da alcuni secoli.




La fotografia a colori diventa una realtà nel 1904, quando i fratelli Lumiere di Lione (gli stessi del cinema) mettono a punto, brevettano e commercializzano le lastre Autochrome. Il procedimento Autochrome era una tricromia su una sola lastra che sfruttava la proprietà della fecola di patate di poter essere polverizzata in granuli di dimensione molto regolare. La fecola in polvere veniva colorata nei tre colori primari, quindi si prelevavano parti uguali dei colori, si aggiungeva polvere di carbone e si copriva con questa una normale emulsione all'argento. I granuli di fecola colorata facevano da filtro in fase di ripresa mentre la polvere di carbone, assai più fine della fecola, riempiva gli interstizi fra i granuli con il risultato che solo l'emulsione filtrata dalla fecola poteva essere raggiunta dalla luce. Naturalmente la sensibilità della lastra era molto bassa e richiedeva un'esposizione di parecchi secondi. Dopo lo sviluppo e l'inversione della lastra si otteneva una diapositiva bianco e nero a cui lo strato di fecola dava il colore.





Nei primi anni della fotografia, fin verso la metà dell'800, il dagherrotipo e la calotipia si divisero il mercato. Il dagherrotipo fu apprezzato per la sua nitidezza mentre alla calotipia aderirono i numerosi fotoamatori attratti da un procedimento più semplice, più economico e, forse, con una espressività maggiore. In particolare il daguerrotipo incontrò il gusto della borghesia francese, la calotipia quello della società inglese.
Nel 1851 il fotografo Gustave Le Gray migliorò la qualità della calotipia paraffinando la carta prima di sensibilizzarla. In questo modo la carta non assorbiva l'emulsione e formava uno strato più sottile: il risultato era un aumento del potere risolutivo a scapito della sensibilità con un tempo medio di esposizione di circa 15 minuti (secondo la regola maggior quantità di emulsione = maggior sensibilità). Il nuovo processo quindi poteva essere applicato solo alle riprese statiche e venne apprezzato in particolare dai fotografi di paesaggio e di architettura. Ma nello stesso anno l'inglese Frederick Scott Archer, scultore e calotipista, rese noto il procedimento al collodio umido: una lastra di vetro era spalmata di collodio sensibilizzato con nitrato d'argento e il risultato era un negativo su vetro più facile da stampare per contatto rispetto ai negativi di carta. Inoltre la qualità del collodio umido era superiore a quella della calotipia e la sensibilità paragonabile a quella del dagherrotipo. D'altra parte il fotografo era obbligato a dotarsi di una tenda per poter preparare le lastre subito prima dell'esposizione, quando si allontanava dallo studio, ma questa difficoltà non spaventò i protofotografi che si dotarono di camere oscure portatili di varie forme, dalla tenda smontabile al carro trainato da cavalli, e tutti gli altri procedimenti scomparvero prima del 1860. Con il collodio umido furono fotografate la guerra di Crimea (1855) e quella civile americana ed anche gli esporatori come David Livingstone partivano con un equipaggiamento completo per lastre umide. Il passo successivo furono le lastre di vetro con emulsione "secca", che era stata sperimentata già dal 1848 ma abbandonata perchè la sensibilità era risultata troppo bassa. Un primo miglioramento si ebbe nel 1871 quando il medico londinese Richard Leach Maddox ebbe l'idea di utilizzare la gelatina animale come base per i sali d'argento, ma la vera rivoluzione arrivò nel 1878 quando Charles Bennet scoprì che la sensibilità poteva essere aumentata moltissimo semplicemente riscaldando l'emulsione a lungo prima di stenderla sulla lastra di vetro. Fu un successo immediato perchè per la prima volta era disponibile un processo che permetteva di preparare lastre di qualità molto tempo prima dell'uso e quindi adatto alla produzione industriale, d'altra parte è facile immaginare la gioia dei fotografi che venivano liberati dall'obbligo di prepararsi le lastre da soli prima dello scatto (operazione malsana: la storia della fotografia è punteggiata anche da alcune vittime), né a dotarsi di strane e ingombranti attrezzature. La gelatina secca inoltre permetteva tempi di esposizione di 1/25 di secondo (e anche meno!) e quindi rese possibile la creazione di fotocamere da usare a mano libera.
In questo mercato in rapida espansione George Eastman, il fondatore della Kodak, diventò nel 1880 uno dei più grandi fabbricanti americani e nei successivi 30 anni riuscì a monopolizzare il mercato americano ed a sbarcare in Europa (impresa tuttaltro che facile considerando la durata di ogni traversata atlantica). La prima invenzione introdotta da Eastman fu il filmpack, ovvero pacchetti di lastre confezionate in modo tale che ogni lastra potesse essere estratta dalla macchina dopo l'uso, rimanendo protetta dalla luce grazie a della carta nera. Nel 1885 cominciò a produrre rotoli di carta sensibilizzata con gelatina a secco che con appositi adattatori potevano essere utilizzati al posto delle lastre e nel 1888 mise in vendita la prima macchina fotografica Kodak, contenente un rotolo di carta sufficiente per 100 fotografie circolari del diametro di 6.5 cm che al termine era possibile scegliere fra acquistare il rullo di ricambio o inviare tutta la macchina alla fabbrica che, per poca spesa, provvedeva sia a sviluppare le foto che a caricarla con un nuovo rullo. Per questa macchina fu coniato il motto "Voi premete il bottone, noi faremo il resto" che rese popolare in America l'uso della pellicola in rotoli. Nel 1889 la Kodak introdusse la prima pellicola di celluloide trasparente (larga 70 mm) dalla quale William Kennedy Laurie Dickson, assistente di T. A. Edison, ricavò la pellicola 35mm, tagliandola a metà e perforandola su entrambi i lati, per utilizzarla nello studio di quella che avrebbe dovuto essere la prima cinepresa. In questo modo egli definì, involontariamente, il formato cinematografico con i suoi 24 mm di larghezza.
Il 21 aprile 1892 Samuel Turner chiese il brevetto per una pellicola in rullo che permetteva di caricare la macchina senza ricorrere alla camera oscura: la pellicola era avvolta insieme ad una striscia di carta nera, che la proteggeva dalla luce, su un rocchetto dotato di flange laterali. Si trattava della seconda rivoluzione dei supporti sensibili dopo l'invenzione delle lastre a secco e anche se inizialmente passò inosservata le bastarono pochi anni per condizionare il mercato delle fotocamere e dare vita al formato '120', il più antico tuttora in commercio.
In Europa i costruttori sia di macchine che di lastre contrastarono l'espansione della Kodak basandosi sul fatto che la qualità delle lastre era superiore a quella delle pellicole, ma dovettero capitolare davanti alla politica commerciale della Kodak, da sempre improntata sulla qualità e semplicità, conciliando queste caratteristiche in fotocamere la cui vendita allargava il mercato delle pellicole. Quando all'inizio del '900 la qualità della pellicola di celluloide diventò più elevata e la rete di vendita della Kodak più capillare, la tendenza del mercato europeo iniziò a cambiare e nel 1920 la pellicola in rullo aveva superato la vendita delle lastre di piccolo formato. Le lastre di piccolo formato sopravvissero fino alla fine degli anni '30 , quando erano ancora disponibili apparecchi a lastra o con la possibilità di usare sia rulli che lastre. Tuttavia la scomparsa definitiva delle lastre in vetro, per i formati più grandi, si colloca intorno a gli anni '60. La causa della resistenza verso l'uso delle pellicole in rullo lo possiamo scoprire in un catalogo Agfa del 1907: per la propria pellicola essa consigliava di sviluppare un fotogramma alla volta (come se fossero lastre!) tagliando il rullo in corrispondenza di apposite righe bianche tracciate sulla striscia protettiva di carta nera (la pellicola era ortocromatica e quindi la camera oscura poteva essere illuminata con una luce rossa). Il motivo stava nel fatto che all'inizio del '900 non esisteva ancora un metodo per misurare la sensibilità delle pellicole e quindi il fotografo era costretto a porre rimedio durante lo sviluppo (controllato a vista) agli "errori" di esposizione commessi durante lo scatto. Le indicazioni dei fabbricanti erano di questo tono (testualmente dallo stesso catalogo, paragrafo "Esposizione" della pellicola definita "extra rapida"): "Se si lavora con un obbiettivo semplice, come quelli degli apparecchi ordinari, non si può fare delle istantanee che al sole e fra le dieci ore antimeridiane, e le tre pomeridiane; ed anche in questo caso è bene evitare le parti oscure, il fogliame etc. Solamente in montagna od al mare si può fare eccezione a questa regola per effetto della maggior luce. Un buon obbiettivo ed un otturatore a velocità variabili permettono di fare le istantanee senza sole. Se la luce non è conveniente per le istantanee, si possono fare delle pose."
I primi materiali fotografici erano sensibili solo alla luce blu, quindi il rosso e il verde erano restituiti con grigi molto più scuri del blu. Nel 1873 Hermann Vogel, professore di chimica di Berlino, dimostrò che era possibile sensibilizzare le lastre anche agli altri colori trattando le emulsioni con dei coloranti. Nel 1882 furono realizzate delle lastre sensibili anche al verde (ma non al rosso, cioè ortocromatiche o isocromatiche, come furono chiamate allora) e poichè la sensibilità di queste lastre era ancora sbilanciata verso il blu molte macchine erano dotate di un filtro giallo che poteva essere inserito davanti all'obiettivo per ovviare all'inconveniente. Nel 1903 furono prodotte le prime emulsioni sensibili alla luce arancione e dal 1905 alla luce rossa. Le prime lastre veramente pancromatiche furono prodotte a partire dal 1906 da Wratten & Wainwright di Londra. Le lastre sensibili anche al verde e al rosso non solo restituivano meglio i colori ma richiedevano tempi di scatto pił veloci e così alla fine dell'800 divennero usuali gli otturatori dotati del tempo di scatto di 1/100 di secondo.
Le prime lastre a colori realmente disponibili sono le Autochrome del 1904,dei fratelli Lumiere. Tuttavia la fotografia a colori inizia a prendere campo solo negli anni '40, quando sul mercato si trovavano già molti processi a colori, fra cui il Kodachrome, inventato nel 1935 e commercializzato nel formato 35mm a partire dal 1936.
A partire dal 1940 la pellicola di celluloide fu sostituita da acetato di cellulosa, non infiammabile. Da questa invenzione deriva il termine "safety film".
Nel 1947 vennero posti in vendita i primi apparecchi Polaroid, a stampa immediata.

Indice

www.photogallery.it
All photographs and texts copyright © PhotoGallery. All rights are reserved under italian and international copyright laws. No part of PhotoGallery's archive may be reproduced or transmitted by any means, without permission in writing from the publisher. PhotoGallery reserves the right not to allow any given image to be reproduced in a particular context.
Contact PhotoGallery with your enquiry about reproducing a photograph or a text.